Nell’anno 2020, ci si trova ancora a parlare di transizioni generazionali nell’ambito delle console, per quanto ormai i modelli commerciali e tecnici ad esso applicati somiglino sempre più a quelli degli smart devices. Vero è che tali modelli configurano ottimi motivi per ritenere obsoleto il termine "generazione", ma sul piano percettivo, il suo impiego da parte di consumatori e media di settore persisterà finché i cicli di vita di questi prodotti (o gamme di prodotti) continueranno ad aggirarsi intorno ai 6-7 anni, tecnologicamente un intervallo di tempo lungo. Di solito, ad attese di questo tenore fanno eco aspettative elevate circa le differenze in potenza di calcolo tra una nuova console e le precedenti, la sofisticazione delle caratteristiche del dispositivo e delle creazioni a cui fa da piattaforma. Al contrario, ciò che tende ad essere meno chiaro è l’idea che col passare del tempo, tali avanzamenti tendano a produrre quelli che gli anglosassoni chiamano “diminished returns” (rendimenti decrescenti): a fronte di progressi tecnici notevolissimi o presentati come tali, l’effetto percepito sull’esperienza di consumo appare ridimensionato, deludente.
Il fenomeno è particolarmente sentito nell’ambito dei videogiochi per un motivo piuttosto banale: trattandosi di una forma di intrattenimento giovane, è ragionevole pensare che buona parte dei suoi utenti ne abbia osservato gli sviluppi più importanti sui fronti delle soluzioni tecniche, del design dei prodotti, della distribuzione commerciale. Chi al giorno d’oggi è sulla soglia dei 40 ha assistito al passaggio dalla grafica vettoriale a quella rasterizzata, all’evoluzione del sonoro, al passaggio esplosivo dal 2D al 3D, all’era dei middleware, alla piena realizzazione del concetto di mondo aperto, al fenomeno indiegames e alla ribalta della Realtà Virtuale. Questa serie di passaggi epocali si è dipanata in maniera così repentina che l’idea di un suo acquietarsi risulta sorprendente, quasi disturbante, nonostante si sia ben consapevoli del fatto che in quanto prodotto di consumo, il videogioco deve rispondere di costi produttivi sempre più elevati, e la relativa industria deve rintracciare costantemente nuovi equilibri.
L’idea che a tratti questi equilibri poggino su sviluppi di entità meno appariscente sembra logica, naturale. Eppure, la sua percezione pubblica resta perlopiù negativa e indipendente dalla bontà dei frutti, come se tutto quanto non si configuri come nettamente superiore a quel che è venuto prima non rappresenti affatto un’evoluzione. Per venire a patti con questa realtà, è necessario che gli utenti aprano un po’ di più gli occhi sulle parti che vanno a comporre la loro esperienza di consumo, poiché spesso i cambiamenti più importanti nascono da luoghi “periferici” che nel caso dei videogiochi sono davvero tanti: interfacce utente, sound design, connettività, funzioni social e di e-commerce, multitasking, ergonomia dei sistemi di controllo, gestione delle preferenze d’uso, tutto ciò che ricade nel concetto di Quality Of Life e via dicendo. Che l'entusiasmo suscitato da questi fattori possa risultare modesto è caratteristico della fase di accumulo che normalmente precede ogni momento di rottura, ma ciò vale per l’intrattenimento come per tutti gli altri ambiti della cultura, e chiaramente non implica che quanto prodotto nella fase di transizione sia trascurabile o poco pregevole. Pensare questo è un po' un inganno percettivo che il concetto di generazione suo malgrado alimenta, per effetto dell'attesa che crea; d'altro canto, essere consapevoli di questo meccanismo può aiutare ad osservarlo con più attenzione e rendere meno snervante l'attesa del successivo "giant leap".